"Un vero e proprio “romanzo” di cui Gorini ha tramato il filo unitario con un pianismo eloquente, senza dispersioni né compiacimenti"
Risalendo al cuore del giovane Schumann
La convinzione che le ultime composizioni di Schumann rivelassero squilibri legati al disagio della mente che tormentava il musicista - la stessa Clara, assistita da Brahms nella cura dell’edizione aveva espunto certe pagine, alcune addirittura distruggendole, per non dire di Joachim, il grande violinista che la consigliò di non pubblicare il «Concerto per violino» a lui dedicato e ritrovato dopo avventurose vicende solo nel 1936 – ha rappresentato un resistente luogo comune anche per molti grandi interpreti, così da indurli a non considerare veri e propri capolavori come i «Gesänge der Frühe».
Solo in tempi recenti, grazie anche a più mirati approfondimenti, le tarde composizioni di Schumann hanno ritrovato una propria vita concertistica nella individuazione di una reale coerenza di sviluppo.
Esemplare in tal senso la proposta del giovane Filippo Gorini che ha preso le mosse dall’ultima composizione per risalire al cuore della produzione giovanile, in un’unica arcata, senza intervallo, proprio per non stemperare il crescendo emozionale che va liberandosi da tale sguardo retrospettivo.
Sguardo acuto quello del giovane interprete nel modo riflessivo con cui si è calato nell’intreccio delle cinque variazioni su quel tema tenerissimo che Schumann diceva essergli stato dettato in sogno dagli spiriti di alcuni amici, tra cui Mendelssohn (ma che già era affiorato nel «Concerto per violino») e che venne pubblicato, tutto solo, negli «opera omnia», senza quelle variazioni – l’ultima terminata a Endenich nella casa di salute dove Schumann era ricoverato e dove finirà i suoi giorni - pubblicate solo nel 1939, che Gorini è andato esplorando in quegli impalpabili passaggi rivelatori, specie nella frizione di certe dissonanze, di una sensibilità turbata e pure acutissima nell’inclinazione affettuosa.
I tratti che affiorano più decisi nei «Canti dell’alba», con quel tono innico, da corale, del primo, ripreso, dopo le più animate divagazioni dei tre intermedi, nell’ultimo dove la melodia, sul sottile fermentare dei bassi, va sfumando verso un orizzonte misterioso, come attonito.
Stati d’animo che Gorini ha evocato con intensa partecipazione, compreso dal pensiero piuttosto che dalla tastiera, saldissima, come ha mostrato nell’inoltrarsi entro il cammino avventuroso della «Sonata in fa diesis minore»; avventuroso e oltremodo periglioso per le implicazioni di una forma che sembra sfuggire di mano sotto la spinta di invenzioni esaltanti, abbandoni dolcissimi come la breve, intimissima parentesi dell’«Aria» o guizzi estrosi come lo spunto parodistico nello «Scherzo» con la citazione del recitativo dei contrabbassi del finale della «Nona »di Beethoven.
Un vero e proprio “romanzo” di cui Gorini ha tramato il filo unitario con un pianismo eloquente, a volte un po’ sommario nel gusto del suono, sempre molto avvolgente, preso dalla necessità di assicurare un filo conduttore, senza dispersioni né compiacimenti.
A conclusione, dietro l’insistenza degli applausi, un momento di raccoglimento dopo la vistosa, virtuosistica conclusione della «Sonata» con la trepida «Romanza in fa diesis maggiore» e ancora con un «Contrappunto» dall’«Arte della fuga», simbolica chiusura del cerchio con quel Bach che lo Schumann della maturità aveva ritrovato quale fonte inesauribile.
— Gian Paolo Minardi, Gazzetta di Parma